LA POLITICA RELIGIOSA

La soppressione dei privilegi fiscali del clero va collocata nella più complessa politica religiosa di Giuliano, mirante all’abbandono del cristianesimo ed alla restaurazione del paganesimo; una politica che gli valse, da parte dei cristiani, l’epiteto infamante di “apostata”, “rinnegato”, la cui prima attestazione scritta risale forse a Gregorio di Nazianzo (Orazione IV, 1).
In realtà, anche se non ne avremo mai certezza, è probabile che Giuliano non commise apostasia, non rifiutò la fede religiosa precedentemente abbracciata, per il semplice fatto che, educato sin dalla tenera età alla filosofia classica ed al platonismo, almeno intimamente, cristiano non lo fu mai.
Formalmente, però, come Cesare di Costanzo II, ne aveva condiviso anche gli atti in materia religiosa, come nel caso dell’editto del 20 febbraio 356: “L’imperatore Costanzo e Giuliano Cesare. Noi ordiniamo di punire con la morte coloro di cui risulti il compimento di sacrifici o di atti di culto idolatrici” (Codice Teodosiano, XVI, 10, 6).
Il tentativo di Giuliano, iniziò in tono molto dimesso (almeno sin quando Costanzo II fu in vita, egli evitò accuratamente di esporre le proprie idee), per poi palesarsi dopo la nomina ad imperatore. Questa mutazione trovò manifestazione anche nella ritrattistica che lo propose sbarbato nel periodo del cesarato (in linea con la tradizione degli ultimi imperatori) e con la folta barba da filosofo dopo la proclamazione imperiale del 260.
Il proposito di Giuliano era quello di creare un movimento pagano che si contapponesse ai cristiani con l’uso delle loro stesse armi; riconoscendo implicitamente la forza (anche “mediatica”) del sistema assistenziale e filantropico realizzato dai cristiani, egli cercò di ripristinare il primato pagano imitandoli, anche nella struttura organizzativa.
Emblema ostile della sua battaglia divenne Costantino; Giuliano, nei suoi “I Cesari”, ironizzò sulla santità dell’imperatore e lo presentò come un personaggio dissoluto, che aveva trovato nel cristianesimo quella mollezza e quella accondiscendenza che il paganesimo non poteva garantirgli, un subdolo manipolatore del sentimento religioso del popolo che, con l’abbandono della tradizione, aveva indebolito l’impero romano.
Proponendosi come oppositore di Costantino, rifiutò il modello di monarca che il suo predecessore aveva proposto, basato sulla deumanizzazione del sovrano; in un certo senso, il ricorso al paganesimo nasceva proprio dall’intuizione dell’incompatibilità di fondo tra impero e cristianesimo.
Certi eccessi, come la smodata passione per i sacrifici cruenti, lo resero però talvolta inviso anche agli stessi pagani (come comprovato dalle critiche mossegli a riguardo dal pur favorevole Ammiano Marcellino).
Nei confronti dei "Galilei", come chiamava i cristiani, Giuliano ebbe una atteggiamento provocatorio (è il caso, ad esempio, del progetto di ricostruire il tempio di Gerusalemme o della riesumazione delle ossa di San Babila dall’ex tempio di Apollo a Dafne) ma non violento. Uno dei primi atti da imperatore unico, alla fine del 361, fu l’emanazione di un editto di tolleranza verso tutte le religioni, compresa quella cristiana; i templi pagani furono riaperti e si poterono celebrare nuovamente i sacrifici.
I vescovi cristiani esiliati nel corso delle dispute tra ortodossi ed ariani (Costanzo II aveva appoggiato l’arianesimo) furono richiamati nelle loro città. Interessante, a riguardo, il punto di vista espresso da Ammiano Marcellino (XXII, 6, 4), secondo il quale Giuliano richiamò i vescovi delle opposte fazioni per creare dissidio tra loro ed indebolire il cristianesimo dal suo interno nella consapevolezza che “nessuna fiera è ostile agli uomini, come la maggior parte dei cristiani sono esiziali a se stessi”.
Al di là dell’ipotesi di Ammiano Marcellino, nell’epistola indirizzata agli abitanti di Bostra, Giuliano minacciò chiunque si unisse ai cristiani con fini violenti o sovversivi ma, nel ribadire la liceità del radunarsi al fine di pregare, esortò i pagani a non commettere alcuna ingiustizia, a non aggredire ed a non insultare.
Uno dei momenti culminanti della politica religiosa di Giuliano fu l’editto del 362 contro i magistros studiorum con il quale proibì ai cristiani di insegnare retorica e grammatica. Questa limitazione, essendo le due discipline considerare basilari per la formazione, rappresentava nella pratica un’esclusione dall’insegnamento; l’obiettivo era far sì che i giovani studenti pagani non dovessero subire i tentativi di conversione posti in essere dai loro docenti cristiani ma Giuliano spiegò il suo punto di vista in un modo differente: non di persecuzione, si trattava, ma della logica conclusione dell’impossibilità di insegnare ciò in cui non si crede. La paideia greca, il percorso di formazione di ogni giovane romano libero, era inconciliabile con la fede cristiana; era impensabile, spiegò Giuliano, che a spiegare le opere della letteratura e della filosofia classica realizzate da autori che onoravano gli Dei, fossero coloro che si rifiutavano di adorarli.
La procedura di nomina degli insegnanti prevedeva una designazione locale, cui seguiva un placet imperiale a conferma. Il Codex Theodosianus (13, 3, 5) ci informa che chiunque volesse insegnare, non aveva facoltà di accedervi senza la preventiva approvazione dell’ordo municipale. L’aspirante insegnante, quindi, doveva prima meritarsi l’unanimità di giudizio dei curiali e successivamente, l’approvazione diretta dell’imperatore.
La restaurazione religiosa durò lo spazio del breve impero di Giuliano ma, per molti pagani, nonostante l'insuccesso del suo tentativo di imporre un credo tanto rigoroso quanto astruso, Giuliano divenne una figura eroica, quasi un "santo pagano", il punto di riferimento ideologico dei tanti che nel cristianesimo videro la causa della rovina dell'Impero.

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